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Riflessione sulle caratteristiche richieste a un buon traduttore

By Gabriele Lo Iacono | Published  01/31/2015 | Translator Education | Recommendation:RateSecARateSecARateSecARateSecIRateSecI
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Author:
Gabriele Lo Iacono
Italy
English to Italian translator
 
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Da più di diciotto anni traduco dall'inglese, quasi incessantemente, testi di psicologia e di tutte le discipline che si sovrappongono o che hanno qualche parentela con la psicologia: scienza della salute, psicoterapia, psichiatria, counseling, antropologia, pedagogia, didattica, sociologia, lavoro sociale, filosofia, spiritualità eccetera. Non sono laureato in lingue ma in psicologia e sono specializzato in psicoterapia. Ho tradotto oltre cinquanta libri - alcuni voluminosi, anche di 800 pagine, altri piuttosto sottili – che sono stati pubblicati da tre editori. Questo è stato il grosso del mio lavoro; poi ho tradotto decine di articoli per varie riviste di settore e per conto dell'Ordine Nazionale degli Psicologi e di alcune scuole di specializzazione in psicoterapia. Ho tradotto importanti documenti internazionali dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e alcune mie traduzioni sono state sovvenzionate dal Segretariato Europeo per le Pubblicazioni Scientifiche/SEPS.
Poiché a volte conosco bene l'argomento dei testi che traduco, mi è capitato di corredare il testo della traduzione di note, di adattarlo alla realtà italiana o di scrivere una prefazione all'edizione italiana.


Come ho cominciato a tradurre

Ho imparato l'inglese alle scuole medie (o “secondarie di primo grado”, come si dice provvisoriamente oggi). Oltre ad averlo come materia scolastica, a quell'epoca ho cominciato a fare conversazioni in inglese con un'anziana signora di origine francese che aveva vissuto per molti anni in Egitto, dove si parlava inglese. Dalla povera signora Sakal eravamo un piccolo gruppo di coetanei. Era vietato parlare italiano, sin dal primo giorno, quando sapevo a malapena dire come mi chiamavo e quanti anni avevo. La signora applicava il metodo audiovisivo, che presentava come un'assoluta novità, e mi faceva usare uno strano libro su cui c'erano delle vignette senza fumetti né testo. Credo che quell'esperienza formativa sia stata molto importante per me e che in futuro, in un certo senso, con l'inglese io abbia vissuto di rendita. È stata un'immersione nella lingua attraverso la quale ho imparato molte cose senza sapere di averle imparate.
Al liceo scientifico l'inglese era la materia in cui riuscivo meglio. Poi l'ho ritrovata all'università, nel corso di studi per la laurea in psicologia. L'esame è stato piuttosto facile. Ma l'occasione che mi ha trasformato in un traduttore di testi di psicologia e territori limitrofi è stata la compilazione della tesi di laurea negli anni 1991-1992, occasione in cui ho letto, elaborato mentalmente e tradotto sinteticamente, per arrivare alla stesura della mia tesi, quasi duecento opere in inglese, costituite perlopiù da articoli scientifici ma anche da qualche libro corposo. Per più di un anno ho cercato nelle biblioteche di Milano, Roma e Padova e poi ho letto con passione e brama di conoscenza tutto quello che trovavo sulla questione dell'effetto placebo: il senso autentico del concetto, le manifestazioni del fenomeno nelle varie culture, i metodi per studiarlo, la sua reale portata, ciò che implicava per la comprensione del rapporto tra mente e corpo, tra psicologia e medicina, per il concetto stesso di salute e la possibilità di conoscere l'efficacia delle terapie mediche e psicologiche eccetera. I bordi delle pagine del mio dizionario inglese-italiano si ingiallirono per l'uso che ne feci e scoprii una moltitudine di espressioni angloamericane, di modi di dire, di phrasal verbs oltre che, naturalmente, di nozioni e di concetti complessi e problematici che spaziavano dalla filosofia al condizionamento classico e operante, dalla medicina all'antropologia, dalla metodologia della ricerca alla storia e alla geografia della psicoterapia. L'entusiasmo e l'orgoglio giovanile mi inducevano a credere di poter scoprire qualche fatto fondamentale e misterioso e di poter dire qualcosa di veramente originale sull'argomento, sul quale in effetti mi ritrovai a essere una delle persone più informate in Italia, tanto che una parte della mia tesi fu pubblicata, con il nome del mio relatore accanto al mio.
Quando cominciai a lavorare come psicologo, nel tempo libero continuai a leggere testi americani sulla psicoterapia. Stavo frequentando la scuola di specializzazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale e, essendo questo tipo di psicoterapia di origine statunitense, pensavo che nella letteratura più recente in lingua inglese si celassero chissà quali segreti, non accessibili ai lettori di lingua italiana, che mi avrebbero permesso di aiutare i miei pazienti a risolvere i loro problemi. Ero ancora spinto da quello spirito di pioniere ingenuo che mi aveva animato per tutta la compilazione della tesi.
Tradussi per iscritto alcuni capitoli di libri, finché un giorno non incominciai a trascrivere la mia traduzione di un volumetto semiartigianale di taglio eminentemente pratico che mi ero fatto spedire appositamente dall'autore statunitense (il famoso psicologo Philip Kendall). Era una specie di quaderno di esercizi per la psicoterapia dei disturbi d'ansia nei bambini e aveva come protagonista un gatto. Pensando che potesse essere molto utile anche per i miei colleghi psicologi, che all'epoca avevano più che oggi teorie e metodi di lavoro molto meno chiari e pratici di quelli che stavo imparando io, pensai di rivolgermi a un editore che stimavo molto e che condivideva la mia stessa impostazione culturale per chiedergli se per caso non avesse interesse per la pubblicazione della mia traduzione. Ebbi così una notizia brutta e una serie di notizie ottime: la prima fu che il libro del gatto era già in traduzione, anche se il testo finale da pubblicare sarebbe stato una versione rielaborata e adattata; delle notizie ottime riferisco solo quella qui più pertinente: l'editore mi assegnava una prova di traduzione. Superai brillantemente la prova e iniziai a tradurre quasi incessantemente un libro dopo l'altro, cosa che continuo a fare ancora oggi.


Traduttore tecnico per l'editoria

Si può dire che io sia un traduttore tecnico per l'editoria. Tecnico in quanto sono specializzato nella traduzione di testi su alcuni argomenti particolari e ne conosco:

- il gergo specialistico;
- i concetti di riferimento: sia quelli legati a particolari orientamenti teorici – perché il mio è un ambito scientifico in cui lo stesso fenomeno viene spiegato con molte teorie diverse e si cerca di fare la stessa cosa con mille metodi differenti – sia quelli legati alla metodologia della ricerca sia quelli legati alla storia dell'ambito scientifico;
- i generi testuali: il trattato scientifico, la rassegna di ricerche su un argomento, il manuale di self-help, il manuale di intervento su una particolare problematica, l'articolo di presentazione dei dati di una ricerca, il sistema di classificazione internazionale, il manuale d'uso del test eccetera;
- le formule rituali;
- le premesse implicite degli autori e così via.

Un traduttore che non avesse studiato psicologia e non avesse la passione per i libri su questo argomento fraintenderebbe molti concetti, non coglierebbe molti riferimenti poco espliciti, non userebbe le parole giuste, non saprebbe mettersi nei panni dell'autore per capire cosa intende comunicare e che peso dà alla varie parti del suo testo, e non coglierebbe dove sta l'originalità del suo pensiero (ammesso che ci siano pensiero e originalità), quanto è veramente competente negli argomenti di cui parla, quali parti del testo sono importanti e quali no e via dicendo.
Sono un traduttore per l'editoria in quanto ho lavorato quasi solo per editori, anche come dipendente interno, e conosco le fasi di produzione di un libro, le figure professionali che possono intervenirvi, i problemi e le priorità dell'azienda, ciò che l'editore si aspetta da un traduttore. E ciò che si aspetta è un testo fedele all'originale ma senza sapore d'inglese, corretto, coerente, coeso, ordinato, scorrevole, di piacevole lettura, curato nell'editing e consegnato alla data concordata. Sebbene il traduttore sia un lavoratore a cottimo, spetta a lui arrivare a questo risultato anche se il testo di partenza è, mettiamo, la sbobinatura di una conversazione in cui mancano la punteggiatura e perfino la distinzione tra discorso diretto e indiretto, molte parole sono trascritte in modo errato (come fielder anziché filter, principle invece di principal, basil ganglia – gangli al basilico! – al posto di basal ganglia, Xerox park – parco Xerox – invece di Xerox PARC, centro di ricerca di Paolo Alto in California, mu invece di MOO), gli stessi acronimi cambiano da una volta all'altra (magari scritti in minuscolo in modo da sembrare parole sensate), le abbreviazioni non vengono spiegate (tipo q and a per intendere domande e risposte), le frasi idiomatiche sono storpiate (per es., beyond the pail invece di beyond the pale), ci sono continue interiezioni, allusioni a cose estranee al contesto e non spiegate, ripetizioni. Ci sono frasi lasciate a metà, che magari vengono riprese dopo vari incisi, e anacoluti di vario genere. Servono quindi perspicacia, conoscenza della materia e della lingua, nervi saldi, tenacia e... una buona connessione a Internet.


Caratteristiche di un buon traduttore

Nel corso degli anni mi sono fatto una mia idea riguardo alle caratteristiche che dovrebbe avere una persona per fare il lavoro che faccio io. Innanzitutto, serve amore per La Settimana Enigmistica. Penso che questa passione richieda una sintesi di qualità e attitudini personali simili a quelle di un buon traduttore.
Senza voler spingere troppo in là l'analogia, credo che ci sia un'affinità fra tradurre e risolvere i giochi de La Settimana Enigmistica. Secondo me, se a una persona non piace risolvere cruciverba, difficilmente potrà fare a lungo il lavoro di traduttore. Le due attività hanno diverse cose in comune. La prima è che richiedono, oltre ovviamente a una buona conoscenza dell'italiano scritto, il desiderio e la capacità di risolvere problemi linguistici. Nel tradurre e nel risolvere cruciverba a volte si arriva alla soluzione di un punto problematico per deduzioni, facendo appello alla propria cultura generale, magari grazie anche all'aiuto della parte già risolta del problema o grazie alla conoscenza delle regole o delle consuetudini utilizzate da chi scrive (l'autore del testo in lingua, gli autori di cruciverba). Sono attività che richiedono una buona dose di spirito analitico, attenzione ostinata ai dettagli, persino pignoleria: come si fa altrimenti a risolvere le parole incrociate non definite o a mandare a memoria e usare coerentemente le regole editoriali sull'uso del trattino breve, medio e lungo?
Nella soluzione di cruciverba e nella traduzione, se lo si vuole, si impara sempre qualcosa e si provano soddisfazione e orgoglio nel vedere il quadro finale completo e “perfetto” dopo avere superato momenti in cui il numero delle incognite era tale da impedire di immaginare una qualsiasi soluzione. È un piacere vedere spuntare fuori chissà da quale meandro della memoria parole e concetti che non si sapeva di sapere!
Mia madre è un'insegnante di italiano delle scuole medie e quando ero bambino a casa mia si mangiava con il dizionario della lingua italiana sul tavolo perché non mancavano mai discussioni sul significato o la corretta grafia di qualche parola. I miei genitori si contendevano il diritto alla soluzione dei cruciverba più difficili sulla Settimana Enigmistica e mi hanno contagiato con la loro passione quando io frequentavo le scuola medie.
Per tradurre professionalmente è necessario amare i giochi di parole, sapere usare sinonimi, perifrasi e figure retoriche, conoscere e sapere utilizzare registri linguistici diversi. La logica aiuta a scegliere il traducente giusto tra i molti possibili, a decriptare i riferimenti impliciti e le allusioni, a formulare frasi corrette e chiare.
In varie occasioni ho cercato dei collaboratori ma non ho mai trovato qualcuno che mi soddisfacesse appieno o di cui mi fidassi del tutto. Una decina di anni fa ho dato alcune pagine da tradurre a un sociologo che stava facendo il dottorato di ricerca. Ero abbastanza soddisfatto del suo lavoro ma la mia fiducia subì uno scossone quando tradusse Goldilocks and the Three Bears, titolo di una famosa storia per bambini, con Ranocchio e i tre orsi. Da dove veniva ranocchio? Fra i significati della parola goldilocks c'era ranuncolo, un fiore comune detto anche dalle mie parti botton d'oro, per la sua somiglianza con i bottoni dorati delle divise militari. Io immagino che, non sapendo cosa volesse dire la parola ranuncolo e non avendo voglia di cercarne il significato sul vocabolario, il mio solerte collaboratore abbia pensato di affidarsi, sicuro del suo intuito, al suono e alla somiglianza con rana e di intendere -uncolo come un diminutivo equivalente a -occhio. Faticavo a riprendermi ma il colpo di grazia mi arrivò quando il giorno concordato per la consegna del suo contributo mi scrisse che non aveva finito e, testuali parole: “[...] la scusa è per impegni pregressi”. La nostra collaborazione finì quel giorno.
La conoscenza di una lingua non può essere mai perfetta e, se non lo è la conoscenza della lingua madre, tanto meno può esserlo quella di una seconda lingua appresa a scuola. Al di là di ciò che si può credere in un mondo basato sull'apparire e la falsa immagine di padronanza quale il nostro, tale consapevolezza è un punto di forza. Il dubbio e l'insicurezza – se accompagnati da effettiva competenza – forniscono al traduttore una marcia in più. Non solo i false friends sono sempre in agguato ma molte parole, espressioni, frasi possono assumere tanti significati diversi, a volte non riportati neppure nei vocabolari perché di nuovo conio o validi solo in particolari aree geografiche o contesti di discorso. Inoltre la memoria inganna e lo stesso può fare l'abitudine, per cui un'espressione tradotta cento volte in un modo può richiedere una traduzione diversa alla centounesima volta.
L'attenzione del traduttore dev'essere sempre desta. La memoria di lavoro o a breve termine è sempre impegnata: si riempie e si svuota in continuazione. Le risorse cognitive vengono assorbite completamente nello sforzo di traduzione. Tutte le domande e i problemi irrisolti della vita privata che pretendono attenzione devono essere lasciati in stand-by fino alla fine della giornata lavorativa: non ci si può riflettere “sullo sfondo” della coscienza. La qualità del lavoro ne risente immediatamente. L'apprendimento di quello che si va traducendo è perlopiù di breve durata: serve principalmente ad arrivare alla fine del lavoro; eppure, seguire il filo del discorso è a volte indispensabile per comprendere un testo che si costruisce poco alla volta, per esempio, sulla base di premesse logiche e deduzioni, di confronti o di un intreccio. La memoria a lungo termine non è meno coinvolta: serve, per esempio, a rievocare regole grammaticali, soluzioni traduttive già adottate in passato, significati e aspetti contenutistici necessari all'interpretazione del testo.
L'esercizio di una professione, comunque, non richiede solo competenza tecnica e una buona traduzione non è solo una traduzione corretta. Nel tradurre servono anche facoltà più capricciose e misteriose, meno controllabili, più basate sull'ispirazione del momento, come la creatività, il senso musicale, l'intuito e la perspicacia, l'immedesimazione con l'autore. Per questo la traduzione è un'arte e sono personalmente convinto che nessun software potrà mai competere con l'uomo in questo.


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